Un'articolo anche su Celtica n°32 di luglio-agosto 2004.
Quanti film vedono come protagonista il celeberrimo Re Artù, il sovrano delle leggende di Camelot, del Graal, della Tavola Rotonda, di Avalon, la cui identità storica è ancora incerta? Non è semplice contarli.
Celebre è "Excalibur" del 1981 di John Boorman, e anche questo film promette bene. L'Irlanda, terra di magia e di incantevoli scenari, fa da sfondo alle vicissitudini di Re Artù, che, a quanto si dice, sono calate il più possibile in un attendibile contesto storico. La ricerca storica è, a differenza delle illustri pellicole precedenti, centrale, a discapito sicuramente degli effetti speciali e dei caratteri più epici e magici. Per le scene di battaglia sono state ingaggiate compagnie di re-enactors professionisti, anche italiane, come la Confraternita dell'Arco e della Spada di Acqui Terme (AL) o la Compagnia del Leone di Brescia, che impersoneranno il ruolo dei Sassoni, che si ritiene l'Artù storico abbia sconfitto nel 520 a.c. nella battaglia di Mount Baedan.
A questo punto direi che, per arrivare a settembre alla visione del film preparati a dovere per giudicare l'effettiva attendibilità della ricerca storica, bisogna documentarci. A questo scopo, ecco l'estratto di una mia ricerca scolastica del 2003 e un elenco di utili links.
Da "La Spada Che Canta: Excalibur, Artù E Il Sacro Graal Tra Mito E Storia".
Analisi del romanzo storico di Jack White "La spada che canta", secondo della serie "Le Cronache di Camelot".
Merlino
Probabilmente visse nel VI secolo; era un Bardo gallese, identificato da alcuni storici con un altro bardo famoso, Taliesin, specializzato in testi profetici. Secondo le incerte cronologie del Basso Medioevo, la sua vita fu incredibilmente lunga, tanto che certi commentatori ritengono che siano esistiti due Merlini diversi.
Della sua produzione letteraria resta un solo frammento dell’opera Afallenau; è la strofa di una profezia in un arcaico dialetto gaelico che nessuno è mai riuscito e tradurre:
Analisi del romanzo storico di Jack White "La spada che canta", secondo della serie "Le Cronache di Camelot".
Merlino
Probabilmente visse nel VI secolo; era un Bardo gallese, identificato da alcuni storici con un altro bardo famoso, Taliesin, specializzato in testi profetici. Secondo le incerte cronologie del Basso Medioevo, la sua vita fu incredibilmente lunga, tanto che certi commentatori ritengono che siano esistiti due Merlini diversi.
Della sua produzione letteraria resta un solo frammento dell’opera Afallenau; è la strofa di una profezia in un arcaico dialetto gaelico che nessuno è mai riuscito e tradurre:
Saith ugein haelion a aethant ygwyllon
yng koed Kelydon y daruyant:
kanys mi vyrdin wedy Taliessin
Byathad kyffredin vyn darogan
yng koed Kelydon y daruyant:
kanys mi vyrdin wedy Taliessin
Byathad kyffredin vyn darogan
La denominazione Merlinus vene utilizzata per la prima volta da Geoffrey di Monmouth nelle sue opere “Historia Regum Britanniae”, “Prophetiae Merlini” e “Vita Merlini”. Fu il vescovo Alessandro di Lincoln a chiedergli di tradurre le profezie dal gaelico al latino: infatti le “Prophetiae Merlini”, che molto probabilmente l’autore aveva reinventato, sono precedute da una dedica al prelato.
Forse proprio grazie all’autorità del committente, la Chiesa Cattolica considerò Merlino un profeta “cristiano” e degno di rispetto; del resto, nella saga arturiana è proprio il mago a innescare il processo che permette “al Dio unico di cacciar via i molti Dei celtici”.
Merlino rimarrà sempre al fianco di Uther e anche del figlio Artù, che il mago aiuterà a concepire con l’inganno.
Artù
Anche Artù è un personaggio complicato: le ipotesi sull’origine etimologica del suo nome sono diverse. Potrebbe derivare dai termini celtici art, roccia, o arth gwyr, uomo orso. Fu citato come personaggio storico solo nel X secolo d.c., ma le tradizioni lo portano indietro fino al V e VI secolo.
Nel 600 viene composto un poema epico, “Gododdin”, in cui l’autore cita in un passo un guerriero che “fornì cibo ai corvi presenti sui bastioni senza essere un Artù”. Se, come si intuisce da questa frase, esisteva più di un Artù, si giustificherebbero alcune contraddizioni temporali che caratterizzano il re celtico. Alcuni pensano che il termine Artù, nato da un primo mitico re, fosse un titolo che veniva preso da tutti i suoi successori, un po’ come il titolo di Cesare per i romani. E poiché re Artù viene legato alla mitica impresa di recupero del Graal, può essere che tutti quelli che erano designati a tale missione prendessero tale titolo.
Per alcuni, Artù è un personaggio ispirato a Cu Chulainn, protagonista di poemi epici irlandesi, e il nome potrebbe derivare dal latino artorius: in tal caso, Artù forse era un rappresentante in Britannia dell’Impero Romano, e quindi, ancora più che un nome regale, rappresenterebbe un titolo. E ancora lo troviamo nella “Vita di San Colombano”, VIII secolo, dove l’agiografo Adomnan da Iona nomina un principe britannico chiamato “Arturius figlio di Aedàn MacGabrain re di Dalriada”.
Artù diventa protagonista o comprimario di narrazioni gallesi attorno al 600 d.c.; in un poema del ciclo “Gododdin” è descritto come un guerriero invincibile, in un altro discende agli inferi per recuperare un magico calderone, e qui ritroviamo il simbolo della coppa. Comunque, solo verso il 1190 Chrètien de Troyes introdusse il tema del Graal; l’epopea arturiana viene definitivamente messa a punto poi da Sir Thomas Malory.
La figura di Artù si trova spesso anche in Italia, infatti Alfredo Castelli, nella sua “Enciclopedia del mistero”, presenta la seguente composizione dell’autore duecentesco Gatto Lupesco:
Lo Re Artù k’avemo perduto
Cavalieri siamo di Bretagna
ke vegnamo de la montagna
ke l’omo appela Mongibello.
Assai vi semo stati ad ostello
per apparare ed invenire
la veritade di nostro sire
lo Re Artù, k’avemo perduto
e non sapemo ke sia venuto.
Or ne torniamo in nostra terra
ne lo reame d’Inghilterra.
Forse proprio grazie all’autorità del committente, la Chiesa Cattolica considerò Merlino un profeta “cristiano” e degno di rispetto; del resto, nella saga arturiana è proprio il mago a innescare il processo che permette “al Dio unico di cacciar via i molti Dei celtici”.
Merlino rimarrà sempre al fianco di Uther e anche del figlio Artù, che il mago aiuterà a concepire con l’inganno.
Artù
Anche Artù è un personaggio complicato: le ipotesi sull’origine etimologica del suo nome sono diverse. Potrebbe derivare dai termini celtici art, roccia, o arth gwyr, uomo orso. Fu citato come personaggio storico solo nel X secolo d.c., ma le tradizioni lo portano indietro fino al V e VI secolo.
Nel 600 viene composto un poema epico, “Gododdin”, in cui l’autore cita in un passo un guerriero che “fornì cibo ai corvi presenti sui bastioni senza essere un Artù”. Se, come si intuisce da questa frase, esisteva più di un Artù, si giustificherebbero alcune contraddizioni temporali che caratterizzano il re celtico. Alcuni pensano che il termine Artù, nato da un primo mitico re, fosse un titolo che veniva preso da tutti i suoi successori, un po’ come il titolo di Cesare per i romani. E poiché re Artù viene legato alla mitica impresa di recupero del Graal, può essere che tutti quelli che erano designati a tale missione prendessero tale titolo.
Per alcuni, Artù è un personaggio ispirato a Cu Chulainn, protagonista di poemi epici irlandesi, e il nome potrebbe derivare dal latino artorius: in tal caso, Artù forse era un rappresentante in Britannia dell’Impero Romano, e quindi, ancora più che un nome regale, rappresenterebbe un titolo. E ancora lo troviamo nella “Vita di San Colombano”, VIII secolo, dove l’agiografo Adomnan da Iona nomina un principe britannico chiamato “Arturius figlio di Aedàn MacGabrain re di Dalriada”.
Artù diventa protagonista o comprimario di narrazioni gallesi attorno al 600 d.c.; in un poema del ciclo “Gododdin” è descritto come un guerriero invincibile, in un altro discende agli inferi per recuperare un magico calderone, e qui ritroviamo il simbolo della coppa. Comunque, solo verso il 1190 Chrètien de Troyes introdusse il tema del Graal; l’epopea arturiana viene definitivamente messa a punto poi da Sir Thomas Malory.
La figura di Artù si trova spesso anche in Italia, infatti Alfredo Castelli, nella sua “Enciclopedia del mistero”, presenta la seguente composizione dell’autore duecentesco Gatto Lupesco:
Lo Re Artù k’avemo perduto
Cavalieri siamo di Bretagna
ke vegnamo de la montagna
ke l’omo appela Mongibello.
Assai vi semo stati ad ostello
per apparare ed invenire
la veritade di nostro sire
lo Re Artù, k’avemo perduto
e non sapemo ke sia venuto.
Or ne torniamo in nostra terra
ne lo reame d’Inghilterra.
Qui si parla della leggenda di Artù nell’Etna, riportata anche dall’inglese Gervase di Tilbury nel XII secolo.
Si possono riscontrare anche testimonianze di carattere architettonico per esempio nel duomo di Modena, sul portale della Cattedrale di Bari e nel mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto. Questo mosaico rappresenta l’albero della vita, che descrive le vicende umane, per la maggior parte vicende bibliche, descritte dall’alto verso il basso, da Adamo ed Eva alla storia della città. Si trova anche la Scacchiera, simbolo poi adottato dai Templari, che rappresenta l’ordine cosmico e l’eterna lotta tra il bene e il male.
Nel mosaico, re Artù è rappresentato in groppa a una pecora con un gatto che cerca di assalirlo: potrebbe essere il ricordo della morte di un “Artù” in Italia. A osservare questa scena vi è forse Parsifal, il cui aspetto è particolare: sta in piedi, dritto e bello, si eleva sopra Artù e Abele, quasi come simbolo di chi è degno del cielo. Potrebbe essere proprio che sia stato innalzato dopo il recupero del Graal.
Ma oltre che in queste coincidenze, le leggende arturiane hanno un prologo in Italia attorno alla figura del santo-avventuriero San Galgano. Secondo le tradizioni, in particolare un codice quattrocentesco conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, era stato cavaliere di ventura e non aveva condotto una vita proprio esemplare.
Si dice che fosse di Siena, figlio di Guidotto e Deonigia, un uomo feroce e lascivo, amante della mondanità. La sua conversione avvenne per opera delle visioni di San Michele, che lo invitavano a farsi cavaliere e a seguire il santo a Montesiepi, dove si trovavano i dodici apostoli riuniti in una casa rotonda. Un giorno, mentre Galgano si stava recando a Civitella, il cavallo ad un certo punto si fermò, non volendo proseguire, e portò il suo cavaliere a Montesiepi, ispirato da Dio.
Qui il santo iniziò il suo eremitaggio: al momento dell’arrivo, riconosciuto il luogo della sua visione, volle costruire una croce, ma non avendo legno, conficcò la sua spada in una roccia. Inoltre si costruì una casa rotonda come quella della visione. Un giorno, decise di fare un pellegrinaggio alla basilica degli apostoli e partì per Roma; mentre era via, giunsero al luogo del suo eremitaggio molti invidiosi per estrarre la spada dalla roccia. Non ci riuscirono neppure con i più macchinati stratagemmi ma la ruppero. Quindi Galgano, tornato dal suo viaggio e trovando la spada rotta, chiese a Dio perché lo aveva permesso: Dio, impietosito, aggiustò la spada. Poco dopo, Galgano morì.
Dopo la sua morte nel 1181, che coincide con la nascita di san Francesco, attorno a Montesiepi e al luogo dove aveva conficcato nella roccia la sua spada iniziarono a svolgersi episodi non del tutto chiariti, a cominciare dalla costruzione della chiesetta circolare che custodisce un frammento di roccia con la spada ancora conficcata in una fessura. La pianta circolare ricorda quella dei templi pagani, e molto probabilmente quel posto era già sacro in precedenza e legato a culti e tradizioni celtiche: infatti l’antico nome di Montesiepi era Cerboli, che rimanda al cervo, animale totemico tipicamente celtico, rappresentato addirittura in una delle maggiori divinità, Cerumno. Inoltre, vicinissimo a Montesiepi c’è il paesino di Brenna, che richiama Brenno, re celto-gallico, e Bran, eroe fondatore celtico.
Ecco il documento Vaticano da cui sono state tratte queste tradizioni:
Si possono riscontrare anche testimonianze di carattere architettonico per esempio nel duomo di Modena, sul portale della Cattedrale di Bari e nel mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto. Questo mosaico rappresenta l’albero della vita, che descrive le vicende umane, per la maggior parte vicende bibliche, descritte dall’alto verso il basso, da Adamo ed Eva alla storia della città. Si trova anche la Scacchiera, simbolo poi adottato dai Templari, che rappresenta l’ordine cosmico e l’eterna lotta tra il bene e il male.
Nel mosaico, re Artù è rappresentato in groppa a una pecora con un gatto che cerca di assalirlo: potrebbe essere il ricordo della morte di un “Artù” in Italia. A osservare questa scena vi è forse Parsifal, il cui aspetto è particolare: sta in piedi, dritto e bello, si eleva sopra Artù e Abele, quasi come simbolo di chi è degno del cielo. Potrebbe essere proprio che sia stato innalzato dopo il recupero del Graal.
Ma oltre che in queste coincidenze, le leggende arturiane hanno un prologo in Italia attorno alla figura del santo-avventuriero San Galgano. Secondo le tradizioni, in particolare un codice quattrocentesco conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, era stato cavaliere di ventura e non aveva condotto una vita proprio esemplare.
Si dice che fosse di Siena, figlio di Guidotto e Deonigia, un uomo feroce e lascivo, amante della mondanità. La sua conversione avvenne per opera delle visioni di San Michele, che lo invitavano a farsi cavaliere e a seguire il santo a Montesiepi, dove si trovavano i dodici apostoli riuniti in una casa rotonda. Un giorno, mentre Galgano si stava recando a Civitella, il cavallo ad un certo punto si fermò, non volendo proseguire, e portò il suo cavaliere a Montesiepi, ispirato da Dio.
Qui il santo iniziò il suo eremitaggio: al momento dell’arrivo, riconosciuto il luogo della sua visione, volle costruire una croce, ma non avendo legno, conficcò la sua spada in una roccia. Inoltre si costruì una casa rotonda come quella della visione. Un giorno, decise di fare un pellegrinaggio alla basilica degli apostoli e partì per Roma; mentre era via, giunsero al luogo del suo eremitaggio molti invidiosi per estrarre la spada dalla roccia. Non ci riuscirono neppure con i più macchinati stratagemmi ma la ruppero. Quindi Galgano, tornato dal suo viaggio e trovando la spada rotta, chiese a Dio perché lo aveva permesso: Dio, impietosito, aggiustò la spada. Poco dopo, Galgano morì.
Dopo la sua morte nel 1181, che coincide con la nascita di san Francesco, attorno a Montesiepi e al luogo dove aveva conficcato nella roccia la sua spada iniziarono a svolgersi episodi non del tutto chiariti, a cominciare dalla costruzione della chiesetta circolare che custodisce un frammento di roccia con la spada ancora conficcata in una fessura. La pianta circolare ricorda quella dei templi pagani, e molto probabilmente quel posto era già sacro in precedenza e legato a culti e tradizioni celtiche: infatti l’antico nome di Montesiepi era Cerboli, che rimanda al cervo, animale totemico tipicamente celtico, rappresentato addirittura in una delle maggiori divinità, Cerumno. Inoltre, vicinissimo a Montesiepi c’è il paesino di Brenna, che richiama Brenno, re celto-gallico, e Bran, eroe fondatore celtico.
Ecco il documento Vaticano da cui sono state tratte queste tradizioni:
-Dal Codice conservato nella biblioteca Chigiana del Vaticano-Incomincia la leggenda di santo Galgano confessore. File in formato .rtf
La ricerca delle prove storiche dell’esistenza di Artù continua dal 1190, quando i monaci di Glastonbury identificarono la loro abbazia con la mitica isola di Avalon, dove il sovrano era stato trasportato dopo essere stato mortalmente ferito a Camlann.
Il nome di Avalon deriva dal cimrico afal, cioè pomo: la figura del pomo, e quindi del legame agricolo, fa parte di tutta una simbologia dell’isola che la lega al culto lunare della Dea Madre. Dunque il significato è “Terra dei Pomi”, ma il nome Avalon riporta da vicino a Ablem/Belem, che sarebbe l’equivalente celtico di Apollo. Un altro nome di Avalon era Tir Na N’Og, ossia “paese della giovinezza “ o “terra degli immortali”.
Sempre secondo le leggende celtiche, simboli sono anche l’albero d’argento che reca il sole all’estremità, la fontana della giovinezza e la coppa, secondo molti proprio il Santo Graal. Custode del giardino e dell’albero delle mele d’oro è il serpente Ladone, secondo alcune versioni ucciso da Eracle: ecco ritrovato un mito greco, quello del Giardino delle Esperidi.
È da Avalon che provengono, poi, i “Thuata de Danann”, ossia “la stirpe della dea Dana”, divinità celtica madre e nutrice invisibile, molto presente nel mito locale, detta anche Ana. Potrebbe essere un caso se la madre della Madonna, spesso scambiata con una vergine nera, si chiama proprio Anna? Quindi da tradizioni iperboriche il nome Anna è simbolo di Madre.
Il legame tra Avalon e le terre iperboriche dei miti greci è notevole, infatti erano posizionate nelle vicinanze del polo nord, come anche il Giardino delle Esperidi. Nel nord Europa, secondo gli antichi, viveva una popolazione leggendaria, che veniva chiamata "Iperborei". Erano appartenenti alla stirpe degli abitanti di Atlantide in quanto originari dell’isola di Tule, forse l’Islanda: l'isola, dopo un lungo periodo di prosperità, venne intrappolata dai ghiacci, a seguito di una grande catastrofe, la stessa che fece scomparire la maggior parte delle isole di Atlantide, che si trovavano molto più a sud. Ecco le usanze degli Iperborei riportate nella “Biblioteca Storica” di Diodoro Siculo nel secondo libro:
La ricerca delle prove storiche dell’esistenza di Artù continua dal 1190, quando i monaci di Glastonbury identificarono la loro abbazia con la mitica isola di Avalon, dove il sovrano era stato trasportato dopo essere stato mortalmente ferito a Camlann.
Il nome di Avalon deriva dal cimrico afal, cioè pomo: la figura del pomo, e quindi del legame agricolo, fa parte di tutta una simbologia dell’isola che la lega al culto lunare della Dea Madre. Dunque il significato è “Terra dei Pomi”, ma il nome Avalon riporta da vicino a Ablem/Belem, che sarebbe l’equivalente celtico di Apollo. Un altro nome di Avalon era Tir Na N’Og, ossia “paese della giovinezza “ o “terra degli immortali”.
Sempre secondo le leggende celtiche, simboli sono anche l’albero d’argento che reca il sole all’estremità, la fontana della giovinezza e la coppa, secondo molti proprio il Santo Graal. Custode del giardino e dell’albero delle mele d’oro è il serpente Ladone, secondo alcune versioni ucciso da Eracle: ecco ritrovato un mito greco, quello del Giardino delle Esperidi.
È da Avalon che provengono, poi, i “Thuata de Danann”, ossia “la stirpe della dea Dana”, divinità celtica madre e nutrice invisibile, molto presente nel mito locale, detta anche Ana. Potrebbe essere un caso se la madre della Madonna, spesso scambiata con una vergine nera, si chiama proprio Anna? Quindi da tradizioni iperboriche il nome Anna è simbolo di Madre.
Il legame tra Avalon e le terre iperboriche dei miti greci è notevole, infatti erano posizionate nelle vicinanze del polo nord, come anche il Giardino delle Esperidi. Nel nord Europa, secondo gli antichi, viveva una popolazione leggendaria, che veniva chiamata "Iperborei". Erano appartenenti alla stirpe degli abitanti di Atlantide in quanto originari dell’isola di Tule, forse l’Islanda: l'isola, dopo un lungo periodo di prosperità, venne intrappolata dai ghiacci, a seguito di una grande catastrofe, la stessa che fece scomparire la maggior parte delle isole di Atlantide, che si trovavano molto più a sud. Ecco le usanze degli Iperborei riportate nella “Biblioteca Storica” di Diodoro Siculo nel secondo libro:
“…nelle regioni poste al di là del paese dei Celti c'è un'isola non più piccola della Sicilia; essa si troverebbe sotto le Orse e sarebbe abitata dagli Iperborei, così detti perché‚ si trovano al di là del vento di Borea. Quest'isola sarebbe fertile e produrrebbe ogni tipo di frutto; inoltre avrebbe un clima eccezionalmente temperato, cosicché‚ produrrebbe due raccolti all'anno. Raccontano che in essa sia nata Leto: e per questo Apollo vi sarebbe onorato più degli altri dei; i suoi abitanti sarebbero anzi un po' come dei sacerdoti di Apollo, poiché‚ a questo dio si inneggia da parte loro ogni giorno con canti continui e gli si tributano onori eccezionali. Sull'isola ci sarebbe poi uno splendido recinto di Apollo, e un grande tempio adorno di molte offerte, di forma sferica. Inoltre, ci sarebbe anche una città sacra a questo dio, e dei suoi abitanti la maggior parte sarebbe costituita da suonatori di cetra, che accompagnandosi con la cetra canterebbero nel tempio inni al dio, celebrandone le gesta. Gli Iperborei avrebbero una loro lingua peculiare, e sarebbero in grande familiarità con i Greci, soprattutto con gli Ateniesi e i Delii: avrebbero ereditato questa tradizione di benevolenza dai tempi antichi. Raccontano poi anche che alcuni Greci siano giunti presso gli Iperborei, e vi abbiano lasciato splendide offerte con iscrizioni in caratteri greci. Allo stesso modo anche Abari sarebbe anticamente venuto dagli Iperborei in Grecia, rinnovando la benevolenza e le relazioni con i Delii. Dicono poi che da quest'isola la luna appaia a pochissima distanza dalla terra, e con alcuni rilievi quali quelli della terra chiaramente visibili su di essa. Si dice inoltre che il dio venga nell'isola ogni diciannove anni, periodo in cui giungono a compimento le rivoluzioni degli astri - e per questo motivo il periodo di diciannove anni viene chiamato dagli Elleni "anno di Metone". In questa sua apparizione, il dio suonerebbe la cetra e danzerebbe di continuo ogni notte dall'equinozio di primavera fino al sorgere delle Pleiadi, compiacendosi dei propri successi. Regnerebbero sulla città e governerebbero il recinto sacro i cosiddetti Boreadi, discendenti di Borea, e si trasmetterebbero di volta in volta le cariche per discendenza. "
Excalibur: la spada, un simbolo
Il vero nome in celtico gallese è caledvwlch, che significa “grande fendente”. Questo nome, tradotto in latino, diventò “caliburn” e infine Excalibur.
Tutto iniziò nel 1136 quando un chierico Gallese, Geoffrey di Monmouth, decise di tradurre in latino le tradizioni orali del popolo celtico gallese: questi poemi, noti con il nome di “Mabinogi”, narravano le gesta dei re Britannici dal IV secolo a.c. al VI secolo d.c. Uno di questi re, che la storia colloca attorno al 520 d.c., era Artù, diventato famoso per aver ricacciato i Sassoni dopo la tremenda battaglia di Mount Baedan e aver riportato la pace in Britannia dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente: era proprio lui a brandire la famosa spada, dopo averla estratta dalla roccia in cui giaceva conficcata. Infatti, una profezia diceva che solo il vero re della Britannia avrebbe potuto estrarla e impugnarla.
La spada, come la coppa, è un archetipo ricorrente in tutta la letteratura: sono due simboli che rappresentano due diversi tipi di pensiero e che hanno avuto larga diffusione.
La spada è il simbolo della virilità, della forza, simbolo di Urano che con la sua lama divide il bene dal male, simbolo di una coscienza volta verso il dominio e verso l’affermazione dispotica dell’io, il tipo di religiosità delle religioni monoteiste.
La coppa invece è un simbolo tipicamente femminile, eredità del culto della Madre Terra adorata dal paleolitico, e rappresenta uno stato di coscienza in cui l’uomo torna in simbiosi con il cosmo, una religiosità che è rimasta nel Taoismo. È rappresentata in molti miti antichi: come calderone di Dagda presso i Celti, Cornucopia presso i Greci, Sacro Graal presso gli antichi cristiani.
Il Santo Graal è un simbolo molto ricorrente in tutta la cristianità. Spesso è raffigurato come una magnifica coppa d’oro incastonata di pietre preziose, anche se sarebbe più verosimile immaginarselo come una semplicissima coppa di legno. I Templari, nelle loro crociate, avranno immaginato la coppa di Gesù Cristo come qualcosa di irraggiungibile, perciò si sono create molte fantasticherie attorno a quest’oggetto.
Il termine deriva dal latino “gradalis”, che significa “tazza, vaso, calice, catino”. Questi oggetti rivestono nella mitologia un ruolo molto importante, essendo simboli, come sopra ricordato, del grembo fecondo della Madre Terra. Potrebbe essere quindi che il Sacro Graal fosse una revisione cristiana della Cornucopia greca, ma si sa per certo che è collegato sia a tradizioni Ebraiche, sia islamiche.
Attorno al 1200, uno scrittore tedesco dice che il Graal non è un calice, bensì una pietra chiamata “Lapis Exillis”, tradotta come “Lapis ex coelis”, ovvero pietra caduta dal cielo. Questo si può ricollegare alla pietra nera di La Mecca o al “lapis niger“ adorato dai Romani, ovvero sarebbe un meteorite.
Di reale sappiamo ben poco: dal Nuovo Testamento le parole di Gesù ci giungono in modo abbastanza contorto.. è vero che Cristo fece bere i suoi apostoli dalla sua coppa, ma i teologi sostengono che non disse esplicitamente che così avrebbero bevuto “il suo sangue” per essere salvati in eterno, piuttosto il suo era un modo simbolico di salutare i suoi amici. Anche la storia di Giuseppe d’Arimatea che sotto la croce avrebbe raccolto il sangue di Gesù nella stessa coppa sarebbe quindi pura invenzione.
In effetti, fu Paolo di Tarso che, con la sua teoria dell’espiazione, sconosciuta ai dodici apostoli, inventò il valore di salvezza del “sangue e della “carne” di Cristo. Ma ciò accadde più tardi, quando il corpo di Gesù, e molto probabilmente anche la sua coppa, erano scomparsi da molto tempo.
Però può darsi che il Graal esista ancora da qualche parte. Nel tempo è diventato un simbolo magico nel suo significato di salvezza: basta bere dal Graal e sei salvato per sempre, i tuoi peccati non esistono più e, addirittura, come vediamo più tardi, diventi immortale.
C’è una leggenda che ricorda da vicino quella di re Artù, la “Leggenda del re Pescatore”. In una delle sue molte versioni, il re ferito attende da tempo che uno dei suoi cavalieri ritrovi il Graal, unico rimedio per il suo male. Nessuno, però, è in grado di raggiungerlo. Vedendo un semplice giullare, gli chiede un bicchiere d'acqua. Questi si mette subito al servizio dell'assetato, e, raccolta una coppa, la porge al re, il quale si accorge d'avere tra le mani il Graal. Stupito, domanda come egli abbia potuto trovare qualcosa che i suoi più valorosi cavalieri mai hanno trovato. Egli risponde, con un candore assoluto: - Sapevo soltanto che avevi sete... –
Colui che non cercava il Graal è colui che l'ha ritrovato: un messaggio sorprendente.
Al di là di tutte le leggende che gravitano attorno a quest’oggetto, c’è da dire che il fattore che porta alla ribalta il Graal nel Medioevo sono le Crociate. Infatti, i crociati, i Templari in particolare, vennero in contatto con le popolazioni del medio-oriente che narravano la storia di un oggetto dotato di poteri straordinari. Grazie a loro, la leggenda giunse anche in Europa.
Tuttora, c’è chi sostiene che furono proprio i crociati a riportare il Graal nel vecchio continente, e, se le cose stanno veramente così, ecco i luoghi più probabili per l’ubicazione del calice:
*Il castello di Gisors. I Templari avevano stretto rapporti con la setta degli “Ashashin”, che adoravano un idolo di nome “Bafomet”. Se Bafomet fosse il Graal, gli Ashashin lo diedero ai Templari, che lo nascosero insieme con il loro tesoro in questo castello in Francia.
*Castel del Monte. I “Sufi” erano una setta islamica che adorava il dio delle tre religioni e custodiva il Graal. Questi lo diedero a Federico II, che era uno di loro, e lui lo nascose nel Castel del Monte, edificato per lo scopo.
*Il castello di Takht-I-Sulaiman. Artù è stato ritenuto anche un membro dello Zoroastrismo, la dottrina fondata da Zoroastro. Questi adoravano il fuoco sacro, fonte della conoscenza, probabilmente il Graal, e il castello in cui si trovava questo fuoco sacro era sorprendentemente uguale a quello in cui si trovava il calice. Una coincidenza?
*Il castello di Montsegur. Dopo che il culto di Zoroastro si disperse, alcuni suoi insegnamenti furono ereditati dai “Catari” che si erano stabiliti in Francia nel XII secolo. Se infatti i Catari portarono il Graal con loro, ora si troverebbe in una sala segreta del castello di Montsegur assieme al resto del loro tesoro.
*Torino. Si ritiene che il Graal sua stato portato a Torcono dai fedeli o dai Savoia insieme con la Sacra Sindone. E la simbologia delle statue del tempio della Gran Madre di Dio ne indica l’ubicazione.
*Bari. Dopo un viaggio in Terra Santa, alcuni fedeli portarono a Bari le spoglie di San Nicola ed edificarono una basilica. Ma alcuni ritengono che le spoglie del santo fossero solo una copertura perché, secondo loro, i fedeli erano dei cavalieri inviati dal papa Gregorio VII con lo scopo di recuperare il Graal e sottrarlo ai Saraceni, che avrebbero potuto servirsene contro l’Impero di Bisanzio e contro il cristianesimo.
A chi sostiene che un oggetto di oltre due millenni fa non possa essere giunto a noi, si potrebbe obbiettare il fatto che la Sindone di Torino sia sopravvissuta per duemila anni e che tra gli scienziati sia quasi unanime l'opinione che si tratti del vero lenzuolo che avvolse Gesù: quindi non stupirebbe la possibile esistenza di questa coppa che è ricercata da secoli. Della coppa si parla nei tre Vangeli Sinottici; in Matteo 26, 27-28 si legge: “
[Gesù] prese la coppa del vino, fece la preghiera di ringraziamento, la diede ai discepoli e disse: "Bevetene tutti, perchè questo è il mio sangue, offerto per tutti gli uomini, per il perdono dei peccati."
In seguito, forse Giuseppe d'Arimatea, scrisse un Vangelo che la Chiesa non riconosce, attribuendogli l'aggettivo di Apocrifo. In questo quinto Vangelo, le cui trascrizioni più antiche che possediamo risalgono al VI secolo, viene descritta in dettaglio la calata di Gesù dalla croce, e viene descritto Giuseppe d'Arimatea che raccoglie in una coppa il Sangue del Cristo.
Le tappe storiche che la reliquia avrebbe seguito sono descritte in un testo medievale dello scrittore Robert de Boron, intitolato “Joseph d'Arimathie”. Queste, in breve, le vicende seguite dal Graal secondo questo testo.
Quando Gesù risorse, i Giudei accusarono Giuseppe d'Arimatea (proprietario della tomba ove Cristo fu deposto) di aver rubato il cadavere. Egli fu dunque imprigionato in una torre e privato del cibo. All'interno della prigione, apparve Gesù in un limbo di luce, affidando a Giuseppe la sua coppa. Lo istruì ai misteri dell'Eucarestia e, dopo avergli confidato alcuni segreti, svanì. Giuseppe poté sopravvivere grazie ad una colomba che, ogni giorno, entrava nella cella e depositava un'ostia all'interno della coppa. Nel 70 d.C. fu rilasciato, grazie all'intervento dell'imperatore romano Vespasiano, e insieme a sua sorella e al suo cognato Bron, andò in esilio oltre il mare, con un piccolo gruppo di seguaci. Qui venne costruita una tavola, che venne chiamata Prima Tavola del Graal: doveva ricordare il cenacolo, e infatti c'erano tredici posti di cui uno era occupato da un pesce, che rappresentava Gesù, e un altro, che rappresentava il seggio di Giuda, era nominato "Seggio periglioso". Giuseppe partì per le terre inglesi, dove a Glastonbury fondò la prima chiesa Cristiana, che dedicò alla Madre di Cristo. Qui il Graal venne custodito e utilizzato come calice durante la celebrazione della Messa, alla quale partecipava l'intera compagnia.
Alla morte di Giuseppe, la custodia passò a Bron, il quale divenne celebre con il nome di "Ricco pescatore", per aver saziato l'intera compagnia con un pesce che, posto nel Graal, si era miracolosamente moltiplicato. La compagnia si insediò ad Avalon, un luogo che ancora oggi non è stato identificato: si pensa, comunque, che si trovi nel nord Europa. Qui, alla morte di Bron, divenne terzo custode del Graal un uomo di nome Alain. Venne costruito un castello a Muntsalvach, la Montagna della Salvezza (la cui ubicazione è sconosciuta), proprio per custodire il Graal, e nacque uno specifico ordine cavalleresco, chiamato Ordine dei Cavalieri del Graal, sorto con lo scopo di proteggere il calice. Essi sedevano alla Seconda Tavola del Graal, ove la reliquia dispensava a tutti ostie consacrate. Il custode del Graal assunse il titolo di Re e Sacerdote. Dopo alcune generazioni, divenne re un uomo chiamato Anfortas, il quale ricevette una misteriosa ferita che lo rese sterile; sulle cause della ferita ci sono diverse versioni: secondo alcuni avrebbe perso la fede, secondo altri avrebbe rotto il voto di castità per amore di una donna, secondo altri sarebbe stato colpito accidentalmente da una lancia, da parte di uno straniero che si stava difendendo. Il re divenne celebre con il nome di Re Ferito, e la terra su cui regnava venne colpita da un periodo di sterilità: si parla, a proposito di questo periodo, di Terra Desolata (Waste Land).
La lancia con cui il re venne colpito fu identificata con la Lancia di Longino, il pretoriano Romano che secondo la tradizione biblica avrebbe trafitto il costato di Cristo sulla croce. Essa venne custodita all'interno del Castello del Graal insieme ad una spada, al piatto che sorresse la testa di Giovanni Battista, e al Graal. Questi quattro oggetti influenzarono molto profondamente la cultura successiva, tanto che nei semi delle carte da gioco italiane compaiono ancora le coppe (il Graal), le spade (la spada), i denari (il piatto) e i bastoni (la lancia di Longino). Al fine di ritrovare il Graal, il mago Merlino fondò la Terza Tavola del Graal, chiamata Tavola Rotonda. Dopo aver educato il giovane Artù, quest'ultimo divenne re di Camelot, e si circondò di una compagnia di cavalieri, che presero il nome di "Cavalieri della Tavola Rotonda". Il giorno di Pentecoste il Graal apparve nel centro della Tavola, avvolto in un nimbo di luce, scomparendo dopo breve. I cavalieri, allora, si impegnarono in una ricerca iniziatica del Calice: i più celebri furono Lancillotto, Galvano, Bors, Perceval e Galahad.
Lancillotto fu in grado di avvicinarsi al Graal, ma venne colpito da cecità a causa del suo adulterio con la moglie di Artù, Ginevra. Galvano raggiunse il Castello del Graal ma non riuscì a raggiungere il Graal a causa della sua natura troppo legata alle cose del mondo: egli era privo di quella semplicità richiesta al ricercatore. Soltanto in tre raggiunsero il Graal e furono in grado di partecipare ai suoi misteri: Galahad, cavaliere vergine, Perceval, l'innocente, e Bors, l'uomo comune, che fu l'unico a ritornare alla corte di Artù per portare la notizia del ritrovamento. Nessuno di essi, però, poté impadronirsene. Perceval, dopo aver vagabondato per cinque anni, ritrovò la strada per il castello del Re Ferito (anche chiamato Re Pescatore), e dopo avergli posto una misteriosa domanda - "Chi serve il Graal?" - risanò la ferita del sovrano. L'acqua tornò a scorrere nella Terra Desolata, facendola fiorire.
Galahad, Perceval e Bors ripresero la ricerca, raggiungendo la città orientale di Sarras, la città del Paradiso, dove il Graal era stato trasferito. Qui parteciparono ad una Messa durante la quale Cristo apparve in una visione dapprima come celebrante, poi come un bambino, e infine come un uomo crocifisso.
Galahad, in seguito alla visione, morì e venne portato direttamente in cielo. Perceval ritornò al castello del Re Pescatore, e alla morte di costui, lo sostituì sul trono. Bors, invece, ritornò a Camelot.
Il Graal riposò, così, per i secoli successivi a Sarras, una città che ancora oggi non è stata identificata.
Ecco un’analisi dei cavalieri, e anche di una donna, Dindraine, sorella di Perceval, che in tutto il ciclo graaliano partirono alla ricerca della mitica coppa.
Galahad rappresenta il lato mistico del cristianesimo, i cui atteggiamenti sono spesso in contrasto con la mentalità comune. Si tratta di un comportamento tipico del cristiano, le cui scelte sono in controcorrente con quelle del mondo, e la cui visione della realtà possiede anche una dimensione mistica: la fede nella Provvidenza Divina e nell'amore di Dio sono soltanto due esempi. La determinazione di Galahad è assoluta, ed egli è disposto a tutto per raggiungere il Graal: il suo fine primario è quello di guarire le ferite del Re Pescatore, e ciò fa sì che, alla fine, egli possa ritrovare la reliquia. Così per noi la prima attenzione dovrebbe esser rivolta verso Dio e l'amore per gli altri, così da fare della nostra vita un dono continuo: significa lasciare tutto per seguirlo, con determinazione ed entusiasmo. Galahad ha ritrovato il Graal ed è spirato "in odore di santità". E' la stessa santità cui aspiriamo, sicuri che la via da lui indicata sia l'unica per raggiungere anche noi il Graal. Egli stesso sembra volerci additare questo tragitto: l'ultimo suo pensiero è rivolto al padre Lancillotto; parlando ai compagni, si raccomanda così con loro: "ricordatemi a mio padre Lancillotto e appena lo vedrete, invitatelo a ricordarsi di questo mondo incerto". Quale significato acquista questa raccomandazione? Per Galahad il mondo non è qualcosa da sfuggire in assoluto. Pur non cedendo alle sue lusinghe, egli ama il mondo nel quale è nato, e lo reputa un luogo meraviglioso per cui vale la pena morire. Dunque cade, ai nostri occhi, la figura di un Galahad soltanto mistico ed ascetico. Egli sa fondere un pensiero spirituale ad un altissimo amore per la terra, così da diventare la perfetta immagine di un cristiano, in grado di vivere nel mondo senza essere del mondo.
Perceval fu allevato nel profondo della foresta senza sapere nulla di cavalieri e di cavalleria. Ma fu proprio questa una delle caratteristiche che permisero al giovane eroe di giungere così vicino al centro del mistero, tanto da diventare un Custode del Graal. E questo per la semplicità con cui viveva, tanto che prese il nome proprio dall'aggettivo con cui veniva appellato: il puro folle, “parsi fal”, quindi Parsifal o Perceval. Questa profonda innocenza lo rende inattaccabile alle tentazioni subite sia da Galahad, sia da Bors. Per lui le donne sono come fiori, creature luminose destinate dalla natura a prendersi cura di lui. I suoi combattimenti con altri cavalieri si svolgono come in una dimensione di sogno, come se queste imprese avessero poca importanza per lui. Egli ha la mente rivolta soltanto alla Ricerca, e supera le prove che deve affrontare semplicemente, come se non esistessero. Si tratta di quell'atteggiamento che permette di superare le difficoltà della vita senza perdersi d'animo, con lo sguardo sempre puntato verso la meta da raggiungere: quella della santità. E' quel vivere distaccato dai problemi, senza permettere che essi possano sopraffarci né mutare il nostro essere. E' quell'accettare la croce di ogni giorno senza lamento, ma con una lode continua a Dio.
Bors è il meno celebre dei cavalieri del Graal. Cugino di Lancillotto, vive un po' nell'ombra del suo parente più famoso. E' l'unico ad essere sposato: in questo modo, penetra la natura e il mistero dell'amore umano in un modo che è negato agli altri suoi compagni. Si tratta della figura dell'uomo comune, che tuttavia non teme di lanciarsi in una ricerca sovrannaturale. Gesù ha detto: "Ti ringrazio Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti, e le hai rivelate agli umili". Il suo messaggio è rivolto ai semplici, non soltanto agli eroi. Per questo, ancora oggi, esistono molte persone comuni che hanno deciso di spendere la propria vita per un ideale che non è visibile, ma sovrannaturale. Si tratta di una scommessa sulla quale essi hanno fondato la propria vita, proprio come Bors, che pur vivendo nel mondo, è in grado di raggiungere la meta che si è prefissata: il Graal. Un particolare è importante da sottolineare nella sua ricerca: egli è l'unico a tornare a Camelot quando la ricerca è terminata, per riferire ad Artù e al resto del mondo tutto ciò che è avvenuto. Si tratta, dunque, di colui che ha portato testimonianza alla verità del mistero del Graal, e che ha ritenuto importante rivelare a tutti la sua scoperta. E' lo stesso entusiasmo con cui il cristiano vuole spendere la sua vita per testimoniare ciò che ha trovato: la gioia per la scoperta di un Dio che ama tutti immensamente, e che propone una vita che dà la felicità.
Lancillotto è il cavaliere che ha fallito la sua ricerca: coinvolto dal fallace splendore del mondo, ha messo al primo posto nella sua vita una donna, Ginevra, piuttosto che Dio. Nonostante egli sia sincero e veramente disponibile a lasciare da parte ogni desiderio terreno per dare la scalata alle vette spirituali della Montagna del Graal, questo non è ancora sufficiente perché la ricerca abbia buon fine. Egli giunge al Graal, ha la possibilità di vederlo per un attimo, ma non riesce ad avvicinarsi a lui. Si tratta della stessa sensazione che prova colui che ha l'animo offuscato dall'amore per una donna: si rende conto della presenza di Dio, ma non riesce a proseguire il cammino verso di lui perché frenato dai legami che ha instaurato. Soltanto vivendo un amore aperto a Dio, l'uomo può evitare di lasciarsi legare a terra: i due, allora, sono in grado di levarsi insieme verso l'infinito, e di sostenersi nel cammino a lui. L'amore di Lancillotto, invece, non ha questi intenti: la sua relazione con Ginevra, moglie di Artù, lo porta a commettere un peccato di adulterio che lo separerà da Dio: quella di peccare è una sua scelta consapevole, che sconterà quando davanti al Graal cadrà a terra, investito da un vento di fuoco. Sarà lui a riconoscere il suo errore: "tutte le mie grandi imprese di guerra le ho compiute per amore della regina e per suo amore io ho combattuto, senza badare se fosse giusto o sbagliato, e mai ho combattuto per amore di Dio ma solo per guadagnarmi affetto e per essere amato".
Dio accoglie il suo pentimento, benedicendo la sua discendenza e concedendo il privilegio di ritrovare il Graal al figlio di Lancillotto, Galahad, nato dalla principessa del Graal, Elayne.
Dindraine è una giovane fanciulla, sorella di Perceval. La sua storia, semplice e breve, è nondimeno importante per il significato profondo che se ne può trarre. Ella si trova a bordo della nave di Salomone che sta portando il Graal verso la città santa. Lungo il cammino essi si fermano in un castello ove si trovava una dama gravemente malata di lebbra. Soltanto quando una vergine avesse donato il suo sangue, ella sarebbe guarita. Nonostante i cavalieri del Graal siano disposti a difendere fino alla morte Dindraine, ella di sua spontanea volontà offre in sacrificio il proprio sangue, morendo perché la dama possa guarire. E' evidente l'allegoria del sacrificio cristiano, di quell'atteggiamento di disponibilità a donare la propria vita per la salvezza del prossimo. Questo punto può costituire una notevole materia di meditazione per coloro che affrontano il cammino verso il Graal: ed è particolarmente importante, perché dimostra che i buoni cavalieri non sono necessariamente maschi.
Proviamo adesso ad immaginare ciò che avvenne del Graal il giorno della Passione di Gesù. Secondo Robert de Boron, sarebbe rimasto in custodia nelle mani di Giuseppe d'Arimatea. E' possibile, però, che esso sia stato deposto nel Santo Sepolcro insieme al cadavere di Cristo: era uso comune, infatti, deporre accanto al morto gli oggetti che gli erano appartenuti o in qualche modo erano connessi a lui. Il fatto sorprendente è che esiste qualche dato storico che prova questa seconda affascinante ma altrettanto probabile ipotesi.
Come si presentasse, al suo tempo, il luogo dove venne pietosamente sepolto il Morto del Golgotha fu per secoli uno dei più confusi problemi d’archeologia. La tradizione, invece, è stata dall’inizio univoca e fermissima. Le testimonianze evangeliche dicono che il piccolo colle dell’esecuzione era fuori delle mura, ma "vicino alla città"; pietroso com’era lo si chiamava in ebraico "Gulgoleth", "Golgotha" in aramaico, e nell’antico latino di Tito Livio "Calva", ossia “cranio calvo”, “Calvario”. E ancor oggi, gli arabi chiamano "Ras", “testa”, una prominenza sassosa. Ma sul pendio occidentale cresceva un giardino, un arido giardino di ulivi e palme, dove il ricco Sanhedrita Giuseppe, originario di Ramataim, che noi abbiamo grecizzato in "Arimatea", aveva fatto scavare un sepolcro, forse per sé e, secondo l’uso ebraico, in futuro ampliabile per la discendenza familiare. Infatti, a quei giorni, non vi era stato sepolto nessuno. Non era stato il solo a scegliere quel luogo per un uso funerario, perché alla base della roccia asciutta e scoscesa sono state rinvenute altre antiche tombe ebraiche.
Nell’antico Israele le sepolture ebraiche erano scavate in terreni elevati e asciutti e al riparo da possibili alluvioni. Somigliano a camere, a volta un vano d’ingresso e un secondo, più interno. Vi si trovano sarcofagi di pietra o loculi scavati nella roccia (kokhim), a volte una fossa al centro della stanza, o banchi lungo le pareti. Il Sepolcro del Sanhedrita Giuseppe da Ramataim, come è descritto nei Vangeli, corrisponde all’architettura funeraria ebraica di tipo signorile, di duemila anni or sono, così come ci è stata rivelata dai più recenti scavi: un’anticamera, ricavata nella pietra, per le operazioni rituali, e poi la camera funeraria. Dall’esterno, l’accesso era molto basso e poteva venir chiuso facendovi rotolare contro una grossa pietra circolare.
Nel 70 Gerusalemme subì le più tragiche e distruttive vicende della sua lunghissima storia: la rivolta ebraica, che passò ai posteri come "Guerra Giudaica" (l’assedio di Tito, che con la sua vittoria avrebbe poi guadagnato l’impero), la dispersione in schiavitù della popolazione superstite, che avrebbe dato origine a una Diaspora millenaria, il saccheggio dei tesori del Tempio, portati in trionfo a Roma, la grandiosa mole del Tempio demolita fino al piano delle fondazioni. Le nascenti tradizioni cristiane furono travolte. Il colle del Golgotha e il pendio contiguo, dove Giuseppe da Ramataim aveva sepolto Gesù e forse posto il Graal, furono rinchiusi in una possente muraglia di contenimento. Poi vi furono rovesciate enormi quantità di terra, prendendola da fuori città, per elevare un terrapieno, in cui Golgotha e Sepolcro sprofondarono.
Nella nuova città di Aelia Capitolina, come era stata rinominata Gerusalemme, nacque poco a poco una segreta comunità cristiano-giudaica, che guidata dal vescovo Marco, mantenne intatta la memoria storica del Sepolcro interrato. Nel 312, Costantino conquistò il potere con il determinante appoggio della semiclandestina cristianità. Nel 324 prese il controllo anche delle province orientali; e dovunque, più che in ogni altro luogo a Gerusalemme, affiorarono con impeto dal silenzio le memorie cristiane.
Costantino scendeva verso Gerusalemme, quando il vescovo della città, che si chiamava Macario, andò ad incontrarlo a Nicea. Doveva essere un oratore persuasivo, e soprattutto sicuro di quanto diceva perché nelle sue parole rivisse la tormentata memoria storica di tre secoli di cristianesimo sommerso: un periodo clandestino che in quei giorni finiva. Il vescovo Macario conosceva bene,tramandati dalla memoria verbale delle famiglie giudeo-cristiane e dei loro sacerdoti, dove fossero tutti i luoghi storici dell’esistenza di Cristo, i testimoni di quei trentatré anni, la nascita in Bethlehem, le case familiari di Nazareth, il colle dove erano state pronunciate le parabole, la sala di quell’ultima cena, il luogo del processo e quelli della morte terribile e della sepoltura, così spietatamente cancellati da Adriano. Costantino ascoltò affascinato dall’intensa suggestione che il racconto operò su di lui e sua madre Elena, e decise la prima operazione archeologica della storia: scavare e riscoprire il Golgotha e il Sepolcro.
Si incominciò subito, in mezzo a una folla di curiosi, i cristiani trepidanti e pronti a vedere in ogni pietra smossa un segno di quanto cercavano. Insieme con numerose altre presunte reliquie, si proclamò che era stata trovata una coppa che Elena ritenne essere quella stessa usata da Maria di Magdala: di essa si era servita per raccogliere gocce del sangue di Cristo dopo la crocifissione.
E’ difficile fare ipotesi sulle sorti della coppa. Pur essendo giunti a noi numerosi resoconti coevi delle ricerche promosse dall’imperatrice Elena del sito del Santo Sepolcro, in essi manca ogni accenno alla sorte della coppa, sebbene nel V secolo lo storico Olimpiodoro scrivesse che venne portata in Britannia quando nel 410 Roma fu saccheggiata dai Visigoti. Non mancano neppure contradditori racconti relativi al suo aspetto: in alcuni di essi si tratta di un piccolo recipiente in pietra, in altri di una grande coppa d’argento, e il più popolare narra che era stata incastonata da un artiere romano in uno splendido recipiente d’oro impreziosito da pietre.
Si tratta del Graal? Il calice è giunto a Roma ed è finito in Britannia? Interrogativi che rimarranno tali finché nuovi dati storici non verranno alla luce.
Quali sono le ipotesi più probabili?
Le due storie del Graal presentate rappresentano due ceppi differenti: mentre l'ultima appartiene ad un filone fondato su documenti, scavi archeologici e studi storici, la prima è tratta dal corpo della letteratura Graaliana, ed è indubbio che essa debba essere depurata dai molti elementi che si sono aggiunti nel corso dei secoli, e che con ogni probabilità hanno rivestito eventi reali di simbolismi e allegorismi. Nel concetto di Terra Desolata, ad esempio, si può leggere il periodo di carestia che colpì l'Europa nel passato. E i vari movimenti del Graal, sintetizzati qui sotto, possono documentare reali traslazioni della reliquia, avvenute durante i secoli:
*Gerusalemme (Palestina)
*Glastonbury (Inghilterra)
*Muntsalvach (Montsegur, Francia?)
*Sarras (Siria, patria dei Saraceni?)
Dove si trova Sarras? La città è situata "ai confini dell'Egitto", e dal suo nome deriverebbe l'aggettivo "saraceno". Potrebbe trattarsi della Siria, della Giordania o dell'Iraq. Secondo lo scrittore trecentesco Albrecht von Scharffenberg, che scrisse "Il secondo Titurel", il Graal sarebbe custodito in un castello detto "Turning Castle" (Castello rotante). Le caratteristiche del castello sono assolutamente simili a quelle del palazzo persiano chiamato Takt-I-Taqdis, costruito nel VII secolo d.c.,che era possibile fare ruotare su grandi rulli di legno.
Secondo un'altra leggenda nel castello si sarebbe trovata anche la Santa Croce di Gesù, sottratta da Gerusalemme dal re Chosroes II, che eresse il castello di Takt, il quale saccheggiò la Città Santa nel 614, portando la croce in Persia. Si diceva che insieme alla croce si trovasse il Graal. Quindici anni dopo, nel 629, l'imperatore bizantino Eraclio marciò sulla città di Takt, portando con sé la Croce a Costantinopoli. Con essa, egli potrebbe aver portato con sé anche il Graal. Costantinopoli divenne in seguito celebre per essere la città più ricca di reliquie dell'intera cristianità. La Sindone di Torino, ad esempio, fu custodita ad Edessa dal 33 d.C. (proprietà di re Abgar) al 15 Agosto 944, giorno in cui l'imperatore bizantino mandò un esercito ad appropriarsi della reliquia. Il sudario venne probabilmente preso dai Templari nel 1204, e da qui avrebbe raggiunto Lirey, in Francia. Come la Sindone, così il Graal potrebbe esser stato trovato a Costantinopoli durante le Crociate: ciò spiegherebbe il motivo per cui i romanzi del Graal comparvero improvvisamente sulla scena. Se il Graal raggiunse l'Europa, non è chiaro dove possa esser custodito. Potrebbe esser stato portato in Italia dai Savoia, che entrarono in possesso anche della Sindone. Per questo motivo si pensa possa trovarsi a Torino.
Secondo altri, il Graal sarebbe caduto in mano alla setta dei Catari, e portato nel castello di Montsegur ove, in questo stesso secolo, fu ricercato da un ufficiale nazista, Otto Rahn. Ma le teorie sono molte, tra le quali forse qualcuna nasconde un barlume di verità.
Links:
*Sito internet ufficiale del film: www.kingarthurmovie.com
*Ho condotto le mie ricerche su: Acam - Associazione Culturale Archeologia e Misteri
*Miti di Avalon, in inglese
*Recensioni di film della Guida alla Musica Celtica Myrddin di SuperEva, anche di "Excalibur"
*Un'ora di musiche arturiane, anche Carmina Burana dal film "Excalibur"
*Una recensione illustrata di "Excalibur"
*Taliesin
*Timetable Of Arthurian legends, in inglese
Excalibur: la spada, un simbolo
Il vero nome in celtico gallese è caledvwlch, che significa “grande fendente”. Questo nome, tradotto in latino, diventò “caliburn” e infine Excalibur.
Tutto iniziò nel 1136 quando un chierico Gallese, Geoffrey di Monmouth, decise di tradurre in latino le tradizioni orali del popolo celtico gallese: questi poemi, noti con il nome di “Mabinogi”, narravano le gesta dei re Britannici dal IV secolo a.c. al VI secolo d.c. Uno di questi re, che la storia colloca attorno al 520 d.c., era Artù, diventato famoso per aver ricacciato i Sassoni dopo la tremenda battaglia di Mount Baedan e aver riportato la pace in Britannia dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente: era proprio lui a brandire la famosa spada, dopo averla estratta dalla roccia in cui giaceva conficcata. Infatti, una profezia diceva che solo il vero re della Britannia avrebbe potuto estrarla e impugnarla.
La spada, come la coppa, è un archetipo ricorrente in tutta la letteratura: sono due simboli che rappresentano due diversi tipi di pensiero e che hanno avuto larga diffusione.
La spada è il simbolo della virilità, della forza, simbolo di Urano che con la sua lama divide il bene dal male, simbolo di una coscienza volta verso il dominio e verso l’affermazione dispotica dell’io, il tipo di religiosità delle religioni monoteiste.
La coppa invece è un simbolo tipicamente femminile, eredità del culto della Madre Terra adorata dal paleolitico, e rappresenta uno stato di coscienza in cui l’uomo torna in simbiosi con il cosmo, una religiosità che è rimasta nel Taoismo. È rappresentata in molti miti antichi: come calderone di Dagda presso i Celti, Cornucopia presso i Greci, Sacro Graal presso gli antichi cristiani.
Il Santo Graal è un simbolo molto ricorrente in tutta la cristianità. Spesso è raffigurato come una magnifica coppa d’oro incastonata di pietre preziose, anche se sarebbe più verosimile immaginarselo come una semplicissima coppa di legno. I Templari, nelle loro crociate, avranno immaginato la coppa di Gesù Cristo come qualcosa di irraggiungibile, perciò si sono create molte fantasticherie attorno a quest’oggetto.
Il termine deriva dal latino “gradalis”, che significa “tazza, vaso, calice, catino”. Questi oggetti rivestono nella mitologia un ruolo molto importante, essendo simboli, come sopra ricordato, del grembo fecondo della Madre Terra. Potrebbe essere quindi che il Sacro Graal fosse una revisione cristiana della Cornucopia greca, ma si sa per certo che è collegato sia a tradizioni Ebraiche, sia islamiche.
Attorno al 1200, uno scrittore tedesco dice che il Graal non è un calice, bensì una pietra chiamata “Lapis Exillis”, tradotta come “Lapis ex coelis”, ovvero pietra caduta dal cielo. Questo si può ricollegare alla pietra nera di La Mecca o al “lapis niger“ adorato dai Romani, ovvero sarebbe un meteorite.
Di reale sappiamo ben poco: dal Nuovo Testamento le parole di Gesù ci giungono in modo abbastanza contorto.. è vero che Cristo fece bere i suoi apostoli dalla sua coppa, ma i teologi sostengono che non disse esplicitamente che così avrebbero bevuto “il suo sangue” per essere salvati in eterno, piuttosto il suo era un modo simbolico di salutare i suoi amici. Anche la storia di Giuseppe d’Arimatea che sotto la croce avrebbe raccolto il sangue di Gesù nella stessa coppa sarebbe quindi pura invenzione.
In effetti, fu Paolo di Tarso che, con la sua teoria dell’espiazione, sconosciuta ai dodici apostoli, inventò il valore di salvezza del “sangue e della “carne” di Cristo. Ma ciò accadde più tardi, quando il corpo di Gesù, e molto probabilmente anche la sua coppa, erano scomparsi da molto tempo.
Però può darsi che il Graal esista ancora da qualche parte. Nel tempo è diventato un simbolo magico nel suo significato di salvezza: basta bere dal Graal e sei salvato per sempre, i tuoi peccati non esistono più e, addirittura, come vediamo più tardi, diventi immortale.
C’è una leggenda che ricorda da vicino quella di re Artù, la “Leggenda del re Pescatore”. In una delle sue molte versioni, il re ferito attende da tempo che uno dei suoi cavalieri ritrovi il Graal, unico rimedio per il suo male. Nessuno, però, è in grado di raggiungerlo. Vedendo un semplice giullare, gli chiede un bicchiere d'acqua. Questi si mette subito al servizio dell'assetato, e, raccolta una coppa, la porge al re, il quale si accorge d'avere tra le mani il Graal. Stupito, domanda come egli abbia potuto trovare qualcosa che i suoi più valorosi cavalieri mai hanno trovato. Egli risponde, con un candore assoluto: - Sapevo soltanto che avevi sete... –
Colui che non cercava il Graal è colui che l'ha ritrovato: un messaggio sorprendente.
Al di là di tutte le leggende che gravitano attorno a quest’oggetto, c’è da dire che il fattore che porta alla ribalta il Graal nel Medioevo sono le Crociate. Infatti, i crociati, i Templari in particolare, vennero in contatto con le popolazioni del medio-oriente che narravano la storia di un oggetto dotato di poteri straordinari. Grazie a loro, la leggenda giunse anche in Europa.
Tuttora, c’è chi sostiene che furono proprio i crociati a riportare il Graal nel vecchio continente, e, se le cose stanno veramente così, ecco i luoghi più probabili per l’ubicazione del calice:
*Il castello di Gisors. I Templari avevano stretto rapporti con la setta degli “Ashashin”, che adoravano un idolo di nome “Bafomet”. Se Bafomet fosse il Graal, gli Ashashin lo diedero ai Templari, che lo nascosero insieme con il loro tesoro in questo castello in Francia.
*Castel del Monte. I “Sufi” erano una setta islamica che adorava il dio delle tre religioni e custodiva il Graal. Questi lo diedero a Federico II, che era uno di loro, e lui lo nascose nel Castel del Monte, edificato per lo scopo.
*Il castello di Takht-I-Sulaiman. Artù è stato ritenuto anche un membro dello Zoroastrismo, la dottrina fondata da Zoroastro. Questi adoravano il fuoco sacro, fonte della conoscenza, probabilmente il Graal, e il castello in cui si trovava questo fuoco sacro era sorprendentemente uguale a quello in cui si trovava il calice. Una coincidenza?
*Il castello di Montsegur. Dopo che il culto di Zoroastro si disperse, alcuni suoi insegnamenti furono ereditati dai “Catari” che si erano stabiliti in Francia nel XII secolo. Se infatti i Catari portarono il Graal con loro, ora si troverebbe in una sala segreta del castello di Montsegur assieme al resto del loro tesoro.
*Torino. Si ritiene che il Graal sua stato portato a Torcono dai fedeli o dai Savoia insieme con la Sacra Sindone. E la simbologia delle statue del tempio della Gran Madre di Dio ne indica l’ubicazione.
*Bari. Dopo un viaggio in Terra Santa, alcuni fedeli portarono a Bari le spoglie di San Nicola ed edificarono una basilica. Ma alcuni ritengono che le spoglie del santo fossero solo una copertura perché, secondo loro, i fedeli erano dei cavalieri inviati dal papa Gregorio VII con lo scopo di recuperare il Graal e sottrarlo ai Saraceni, che avrebbero potuto servirsene contro l’Impero di Bisanzio e contro il cristianesimo.
A chi sostiene che un oggetto di oltre due millenni fa non possa essere giunto a noi, si potrebbe obbiettare il fatto che la Sindone di Torino sia sopravvissuta per duemila anni e che tra gli scienziati sia quasi unanime l'opinione che si tratti del vero lenzuolo che avvolse Gesù: quindi non stupirebbe la possibile esistenza di questa coppa che è ricercata da secoli. Della coppa si parla nei tre Vangeli Sinottici; in Matteo 26, 27-28 si legge: “
[Gesù] prese la coppa del vino, fece la preghiera di ringraziamento, la diede ai discepoli e disse: "Bevetene tutti, perchè questo è il mio sangue, offerto per tutti gli uomini, per il perdono dei peccati."
In seguito, forse Giuseppe d'Arimatea, scrisse un Vangelo che la Chiesa non riconosce, attribuendogli l'aggettivo di Apocrifo. In questo quinto Vangelo, le cui trascrizioni più antiche che possediamo risalgono al VI secolo, viene descritta in dettaglio la calata di Gesù dalla croce, e viene descritto Giuseppe d'Arimatea che raccoglie in una coppa il Sangue del Cristo.
Le tappe storiche che la reliquia avrebbe seguito sono descritte in un testo medievale dello scrittore Robert de Boron, intitolato “Joseph d'Arimathie”. Queste, in breve, le vicende seguite dal Graal secondo questo testo.
Quando Gesù risorse, i Giudei accusarono Giuseppe d'Arimatea (proprietario della tomba ove Cristo fu deposto) di aver rubato il cadavere. Egli fu dunque imprigionato in una torre e privato del cibo. All'interno della prigione, apparve Gesù in un limbo di luce, affidando a Giuseppe la sua coppa. Lo istruì ai misteri dell'Eucarestia e, dopo avergli confidato alcuni segreti, svanì. Giuseppe poté sopravvivere grazie ad una colomba che, ogni giorno, entrava nella cella e depositava un'ostia all'interno della coppa. Nel 70 d.C. fu rilasciato, grazie all'intervento dell'imperatore romano Vespasiano, e insieme a sua sorella e al suo cognato Bron, andò in esilio oltre il mare, con un piccolo gruppo di seguaci. Qui venne costruita una tavola, che venne chiamata Prima Tavola del Graal: doveva ricordare il cenacolo, e infatti c'erano tredici posti di cui uno era occupato da un pesce, che rappresentava Gesù, e un altro, che rappresentava il seggio di Giuda, era nominato "Seggio periglioso". Giuseppe partì per le terre inglesi, dove a Glastonbury fondò la prima chiesa Cristiana, che dedicò alla Madre di Cristo. Qui il Graal venne custodito e utilizzato come calice durante la celebrazione della Messa, alla quale partecipava l'intera compagnia.
Alla morte di Giuseppe, la custodia passò a Bron, il quale divenne celebre con il nome di "Ricco pescatore", per aver saziato l'intera compagnia con un pesce che, posto nel Graal, si era miracolosamente moltiplicato. La compagnia si insediò ad Avalon, un luogo che ancora oggi non è stato identificato: si pensa, comunque, che si trovi nel nord Europa. Qui, alla morte di Bron, divenne terzo custode del Graal un uomo di nome Alain. Venne costruito un castello a Muntsalvach, la Montagna della Salvezza (la cui ubicazione è sconosciuta), proprio per custodire il Graal, e nacque uno specifico ordine cavalleresco, chiamato Ordine dei Cavalieri del Graal, sorto con lo scopo di proteggere il calice. Essi sedevano alla Seconda Tavola del Graal, ove la reliquia dispensava a tutti ostie consacrate. Il custode del Graal assunse il titolo di Re e Sacerdote. Dopo alcune generazioni, divenne re un uomo chiamato Anfortas, il quale ricevette una misteriosa ferita che lo rese sterile; sulle cause della ferita ci sono diverse versioni: secondo alcuni avrebbe perso la fede, secondo altri avrebbe rotto il voto di castità per amore di una donna, secondo altri sarebbe stato colpito accidentalmente da una lancia, da parte di uno straniero che si stava difendendo. Il re divenne celebre con il nome di Re Ferito, e la terra su cui regnava venne colpita da un periodo di sterilità: si parla, a proposito di questo periodo, di Terra Desolata (Waste Land).
La lancia con cui il re venne colpito fu identificata con la Lancia di Longino, il pretoriano Romano che secondo la tradizione biblica avrebbe trafitto il costato di Cristo sulla croce. Essa venne custodita all'interno del Castello del Graal insieme ad una spada, al piatto che sorresse la testa di Giovanni Battista, e al Graal. Questi quattro oggetti influenzarono molto profondamente la cultura successiva, tanto che nei semi delle carte da gioco italiane compaiono ancora le coppe (il Graal), le spade (la spada), i denari (il piatto) e i bastoni (la lancia di Longino). Al fine di ritrovare il Graal, il mago Merlino fondò la Terza Tavola del Graal, chiamata Tavola Rotonda. Dopo aver educato il giovane Artù, quest'ultimo divenne re di Camelot, e si circondò di una compagnia di cavalieri, che presero il nome di "Cavalieri della Tavola Rotonda". Il giorno di Pentecoste il Graal apparve nel centro della Tavola, avvolto in un nimbo di luce, scomparendo dopo breve. I cavalieri, allora, si impegnarono in una ricerca iniziatica del Calice: i più celebri furono Lancillotto, Galvano, Bors, Perceval e Galahad.
Lancillotto fu in grado di avvicinarsi al Graal, ma venne colpito da cecità a causa del suo adulterio con la moglie di Artù, Ginevra. Galvano raggiunse il Castello del Graal ma non riuscì a raggiungere il Graal a causa della sua natura troppo legata alle cose del mondo: egli era privo di quella semplicità richiesta al ricercatore. Soltanto in tre raggiunsero il Graal e furono in grado di partecipare ai suoi misteri: Galahad, cavaliere vergine, Perceval, l'innocente, e Bors, l'uomo comune, che fu l'unico a ritornare alla corte di Artù per portare la notizia del ritrovamento. Nessuno di essi, però, poté impadronirsene. Perceval, dopo aver vagabondato per cinque anni, ritrovò la strada per il castello del Re Ferito (anche chiamato Re Pescatore), e dopo avergli posto una misteriosa domanda - "Chi serve il Graal?" - risanò la ferita del sovrano. L'acqua tornò a scorrere nella Terra Desolata, facendola fiorire.
Galahad, Perceval e Bors ripresero la ricerca, raggiungendo la città orientale di Sarras, la città del Paradiso, dove il Graal era stato trasferito. Qui parteciparono ad una Messa durante la quale Cristo apparve in una visione dapprima come celebrante, poi come un bambino, e infine come un uomo crocifisso.
Galahad, in seguito alla visione, morì e venne portato direttamente in cielo. Perceval ritornò al castello del Re Pescatore, e alla morte di costui, lo sostituì sul trono. Bors, invece, ritornò a Camelot.
Il Graal riposò, così, per i secoli successivi a Sarras, una città che ancora oggi non è stata identificata.
Ecco un’analisi dei cavalieri, e anche di una donna, Dindraine, sorella di Perceval, che in tutto il ciclo graaliano partirono alla ricerca della mitica coppa.
Galahad rappresenta il lato mistico del cristianesimo, i cui atteggiamenti sono spesso in contrasto con la mentalità comune. Si tratta di un comportamento tipico del cristiano, le cui scelte sono in controcorrente con quelle del mondo, e la cui visione della realtà possiede anche una dimensione mistica: la fede nella Provvidenza Divina e nell'amore di Dio sono soltanto due esempi. La determinazione di Galahad è assoluta, ed egli è disposto a tutto per raggiungere il Graal: il suo fine primario è quello di guarire le ferite del Re Pescatore, e ciò fa sì che, alla fine, egli possa ritrovare la reliquia. Così per noi la prima attenzione dovrebbe esser rivolta verso Dio e l'amore per gli altri, così da fare della nostra vita un dono continuo: significa lasciare tutto per seguirlo, con determinazione ed entusiasmo. Galahad ha ritrovato il Graal ed è spirato "in odore di santità". E' la stessa santità cui aspiriamo, sicuri che la via da lui indicata sia l'unica per raggiungere anche noi il Graal. Egli stesso sembra volerci additare questo tragitto: l'ultimo suo pensiero è rivolto al padre Lancillotto; parlando ai compagni, si raccomanda così con loro: "ricordatemi a mio padre Lancillotto e appena lo vedrete, invitatelo a ricordarsi di questo mondo incerto". Quale significato acquista questa raccomandazione? Per Galahad il mondo non è qualcosa da sfuggire in assoluto. Pur non cedendo alle sue lusinghe, egli ama il mondo nel quale è nato, e lo reputa un luogo meraviglioso per cui vale la pena morire. Dunque cade, ai nostri occhi, la figura di un Galahad soltanto mistico ed ascetico. Egli sa fondere un pensiero spirituale ad un altissimo amore per la terra, così da diventare la perfetta immagine di un cristiano, in grado di vivere nel mondo senza essere del mondo.
Perceval fu allevato nel profondo della foresta senza sapere nulla di cavalieri e di cavalleria. Ma fu proprio questa una delle caratteristiche che permisero al giovane eroe di giungere così vicino al centro del mistero, tanto da diventare un Custode del Graal. E questo per la semplicità con cui viveva, tanto che prese il nome proprio dall'aggettivo con cui veniva appellato: il puro folle, “parsi fal”, quindi Parsifal o Perceval. Questa profonda innocenza lo rende inattaccabile alle tentazioni subite sia da Galahad, sia da Bors. Per lui le donne sono come fiori, creature luminose destinate dalla natura a prendersi cura di lui. I suoi combattimenti con altri cavalieri si svolgono come in una dimensione di sogno, come se queste imprese avessero poca importanza per lui. Egli ha la mente rivolta soltanto alla Ricerca, e supera le prove che deve affrontare semplicemente, come se non esistessero. Si tratta di quell'atteggiamento che permette di superare le difficoltà della vita senza perdersi d'animo, con lo sguardo sempre puntato verso la meta da raggiungere: quella della santità. E' quel vivere distaccato dai problemi, senza permettere che essi possano sopraffarci né mutare il nostro essere. E' quell'accettare la croce di ogni giorno senza lamento, ma con una lode continua a Dio.
Bors è il meno celebre dei cavalieri del Graal. Cugino di Lancillotto, vive un po' nell'ombra del suo parente più famoso. E' l'unico ad essere sposato: in questo modo, penetra la natura e il mistero dell'amore umano in un modo che è negato agli altri suoi compagni. Si tratta della figura dell'uomo comune, che tuttavia non teme di lanciarsi in una ricerca sovrannaturale. Gesù ha detto: "Ti ringrazio Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti, e le hai rivelate agli umili". Il suo messaggio è rivolto ai semplici, non soltanto agli eroi. Per questo, ancora oggi, esistono molte persone comuni che hanno deciso di spendere la propria vita per un ideale che non è visibile, ma sovrannaturale. Si tratta di una scommessa sulla quale essi hanno fondato la propria vita, proprio come Bors, che pur vivendo nel mondo, è in grado di raggiungere la meta che si è prefissata: il Graal. Un particolare è importante da sottolineare nella sua ricerca: egli è l'unico a tornare a Camelot quando la ricerca è terminata, per riferire ad Artù e al resto del mondo tutto ciò che è avvenuto. Si tratta, dunque, di colui che ha portato testimonianza alla verità del mistero del Graal, e che ha ritenuto importante rivelare a tutti la sua scoperta. E' lo stesso entusiasmo con cui il cristiano vuole spendere la sua vita per testimoniare ciò che ha trovato: la gioia per la scoperta di un Dio che ama tutti immensamente, e che propone una vita che dà la felicità.
Lancillotto è il cavaliere che ha fallito la sua ricerca: coinvolto dal fallace splendore del mondo, ha messo al primo posto nella sua vita una donna, Ginevra, piuttosto che Dio. Nonostante egli sia sincero e veramente disponibile a lasciare da parte ogni desiderio terreno per dare la scalata alle vette spirituali della Montagna del Graal, questo non è ancora sufficiente perché la ricerca abbia buon fine. Egli giunge al Graal, ha la possibilità di vederlo per un attimo, ma non riesce ad avvicinarsi a lui. Si tratta della stessa sensazione che prova colui che ha l'animo offuscato dall'amore per una donna: si rende conto della presenza di Dio, ma non riesce a proseguire il cammino verso di lui perché frenato dai legami che ha instaurato. Soltanto vivendo un amore aperto a Dio, l'uomo può evitare di lasciarsi legare a terra: i due, allora, sono in grado di levarsi insieme verso l'infinito, e di sostenersi nel cammino a lui. L'amore di Lancillotto, invece, non ha questi intenti: la sua relazione con Ginevra, moglie di Artù, lo porta a commettere un peccato di adulterio che lo separerà da Dio: quella di peccare è una sua scelta consapevole, che sconterà quando davanti al Graal cadrà a terra, investito da un vento di fuoco. Sarà lui a riconoscere il suo errore: "tutte le mie grandi imprese di guerra le ho compiute per amore della regina e per suo amore io ho combattuto, senza badare se fosse giusto o sbagliato, e mai ho combattuto per amore di Dio ma solo per guadagnarmi affetto e per essere amato".
Dio accoglie il suo pentimento, benedicendo la sua discendenza e concedendo il privilegio di ritrovare il Graal al figlio di Lancillotto, Galahad, nato dalla principessa del Graal, Elayne.
Dindraine è una giovane fanciulla, sorella di Perceval. La sua storia, semplice e breve, è nondimeno importante per il significato profondo che se ne può trarre. Ella si trova a bordo della nave di Salomone che sta portando il Graal verso la città santa. Lungo il cammino essi si fermano in un castello ove si trovava una dama gravemente malata di lebbra. Soltanto quando una vergine avesse donato il suo sangue, ella sarebbe guarita. Nonostante i cavalieri del Graal siano disposti a difendere fino alla morte Dindraine, ella di sua spontanea volontà offre in sacrificio il proprio sangue, morendo perché la dama possa guarire. E' evidente l'allegoria del sacrificio cristiano, di quell'atteggiamento di disponibilità a donare la propria vita per la salvezza del prossimo. Questo punto può costituire una notevole materia di meditazione per coloro che affrontano il cammino verso il Graal: ed è particolarmente importante, perché dimostra che i buoni cavalieri non sono necessariamente maschi.
Proviamo adesso ad immaginare ciò che avvenne del Graal il giorno della Passione di Gesù. Secondo Robert de Boron, sarebbe rimasto in custodia nelle mani di Giuseppe d'Arimatea. E' possibile, però, che esso sia stato deposto nel Santo Sepolcro insieme al cadavere di Cristo: era uso comune, infatti, deporre accanto al morto gli oggetti che gli erano appartenuti o in qualche modo erano connessi a lui. Il fatto sorprendente è che esiste qualche dato storico che prova questa seconda affascinante ma altrettanto probabile ipotesi.
Come si presentasse, al suo tempo, il luogo dove venne pietosamente sepolto il Morto del Golgotha fu per secoli uno dei più confusi problemi d’archeologia. La tradizione, invece, è stata dall’inizio univoca e fermissima. Le testimonianze evangeliche dicono che il piccolo colle dell’esecuzione era fuori delle mura, ma "vicino alla città"; pietroso com’era lo si chiamava in ebraico "Gulgoleth", "Golgotha" in aramaico, e nell’antico latino di Tito Livio "Calva", ossia “cranio calvo”, “Calvario”. E ancor oggi, gli arabi chiamano "Ras", “testa”, una prominenza sassosa. Ma sul pendio occidentale cresceva un giardino, un arido giardino di ulivi e palme, dove il ricco Sanhedrita Giuseppe, originario di Ramataim, che noi abbiamo grecizzato in "Arimatea", aveva fatto scavare un sepolcro, forse per sé e, secondo l’uso ebraico, in futuro ampliabile per la discendenza familiare. Infatti, a quei giorni, non vi era stato sepolto nessuno. Non era stato il solo a scegliere quel luogo per un uso funerario, perché alla base della roccia asciutta e scoscesa sono state rinvenute altre antiche tombe ebraiche.
Nell’antico Israele le sepolture ebraiche erano scavate in terreni elevati e asciutti e al riparo da possibili alluvioni. Somigliano a camere, a volta un vano d’ingresso e un secondo, più interno. Vi si trovano sarcofagi di pietra o loculi scavati nella roccia (kokhim), a volte una fossa al centro della stanza, o banchi lungo le pareti. Il Sepolcro del Sanhedrita Giuseppe da Ramataim, come è descritto nei Vangeli, corrisponde all’architettura funeraria ebraica di tipo signorile, di duemila anni or sono, così come ci è stata rivelata dai più recenti scavi: un’anticamera, ricavata nella pietra, per le operazioni rituali, e poi la camera funeraria. Dall’esterno, l’accesso era molto basso e poteva venir chiuso facendovi rotolare contro una grossa pietra circolare.
Nel 70 Gerusalemme subì le più tragiche e distruttive vicende della sua lunghissima storia: la rivolta ebraica, che passò ai posteri come "Guerra Giudaica" (l’assedio di Tito, che con la sua vittoria avrebbe poi guadagnato l’impero), la dispersione in schiavitù della popolazione superstite, che avrebbe dato origine a una Diaspora millenaria, il saccheggio dei tesori del Tempio, portati in trionfo a Roma, la grandiosa mole del Tempio demolita fino al piano delle fondazioni. Le nascenti tradizioni cristiane furono travolte. Il colle del Golgotha e il pendio contiguo, dove Giuseppe da Ramataim aveva sepolto Gesù e forse posto il Graal, furono rinchiusi in una possente muraglia di contenimento. Poi vi furono rovesciate enormi quantità di terra, prendendola da fuori città, per elevare un terrapieno, in cui Golgotha e Sepolcro sprofondarono.
Nella nuova città di Aelia Capitolina, come era stata rinominata Gerusalemme, nacque poco a poco una segreta comunità cristiano-giudaica, che guidata dal vescovo Marco, mantenne intatta la memoria storica del Sepolcro interrato. Nel 312, Costantino conquistò il potere con il determinante appoggio della semiclandestina cristianità. Nel 324 prese il controllo anche delle province orientali; e dovunque, più che in ogni altro luogo a Gerusalemme, affiorarono con impeto dal silenzio le memorie cristiane.
Costantino scendeva verso Gerusalemme, quando il vescovo della città, che si chiamava Macario, andò ad incontrarlo a Nicea. Doveva essere un oratore persuasivo, e soprattutto sicuro di quanto diceva perché nelle sue parole rivisse la tormentata memoria storica di tre secoli di cristianesimo sommerso: un periodo clandestino che in quei giorni finiva. Il vescovo Macario conosceva bene,tramandati dalla memoria verbale delle famiglie giudeo-cristiane e dei loro sacerdoti, dove fossero tutti i luoghi storici dell’esistenza di Cristo, i testimoni di quei trentatré anni, la nascita in Bethlehem, le case familiari di Nazareth, il colle dove erano state pronunciate le parabole, la sala di quell’ultima cena, il luogo del processo e quelli della morte terribile e della sepoltura, così spietatamente cancellati da Adriano. Costantino ascoltò affascinato dall’intensa suggestione che il racconto operò su di lui e sua madre Elena, e decise la prima operazione archeologica della storia: scavare e riscoprire il Golgotha e il Sepolcro.
Si incominciò subito, in mezzo a una folla di curiosi, i cristiani trepidanti e pronti a vedere in ogni pietra smossa un segno di quanto cercavano. Insieme con numerose altre presunte reliquie, si proclamò che era stata trovata una coppa che Elena ritenne essere quella stessa usata da Maria di Magdala: di essa si era servita per raccogliere gocce del sangue di Cristo dopo la crocifissione.
E’ difficile fare ipotesi sulle sorti della coppa. Pur essendo giunti a noi numerosi resoconti coevi delle ricerche promosse dall’imperatrice Elena del sito del Santo Sepolcro, in essi manca ogni accenno alla sorte della coppa, sebbene nel V secolo lo storico Olimpiodoro scrivesse che venne portata in Britannia quando nel 410 Roma fu saccheggiata dai Visigoti. Non mancano neppure contradditori racconti relativi al suo aspetto: in alcuni di essi si tratta di un piccolo recipiente in pietra, in altri di una grande coppa d’argento, e il più popolare narra che era stata incastonata da un artiere romano in uno splendido recipiente d’oro impreziosito da pietre.
Si tratta del Graal? Il calice è giunto a Roma ed è finito in Britannia? Interrogativi che rimarranno tali finché nuovi dati storici non verranno alla luce.
Quali sono le ipotesi più probabili?
Le due storie del Graal presentate rappresentano due ceppi differenti: mentre l'ultima appartiene ad un filone fondato su documenti, scavi archeologici e studi storici, la prima è tratta dal corpo della letteratura Graaliana, ed è indubbio che essa debba essere depurata dai molti elementi che si sono aggiunti nel corso dei secoli, e che con ogni probabilità hanno rivestito eventi reali di simbolismi e allegorismi. Nel concetto di Terra Desolata, ad esempio, si può leggere il periodo di carestia che colpì l'Europa nel passato. E i vari movimenti del Graal, sintetizzati qui sotto, possono documentare reali traslazioni della reliquia, avvenute durante i secoli:
*Gerusalemme (Palestina)
*Glastonbury (Inghilterra)
*Muntsalvach (Montsegur, Francia?)
*Sarras (Siria, patria dei Saraceni?)
Dove si trova Sarras? La città è situata "ai confini dell'Egitto", e dal suo nome deriverebbe l'aggettivo "saraceno". Potrebbe trattarsi della Siria, della Giordania o dell'Iraq. Secondo lo scrittore trecentesco Albrecht von Scharffenberg, che scrisse "Il secondo Titurel", il Graal sarebbe custodito in un castello detto "Turning Castle" (Castello rotante). Le caratteristiche del castello sono assolutamente simili a quelle del palazzo persiano chiamato Takt-I-Taqdis, costruito nel VII secolo d.c.,che era possibile fare ruotare su grandi rulli di legno.
Secondo un'altra leggenda nel castello si sarebbe trovata anche la Santa Croce di Gesù, sottratta da Gerusalemme dal re Chosroes II, che eresse il castello di Takt, il quale saccheggiò la Città Santa nel 614, portando la croce in Persia. Si diceva che insieme alla croce si trovasse il Graal. Quindici anni dopo, nel 629, l'imperatore bizantino Eraclio marciò sulla città di Takt, portando con sé la Croce a Costantinopoli. Con essa, egli potrebbe aver portato con sé anche il Graal. Costantinopoli divenne in seguito celebre per essere la città più ricca di reliquie dell'intera cristianità. La Sindone di Torino, ad esempio, fu custodita ad Edessa dal 33 d.C. (proprietà di re Abgar) al 15 Agosto 944, giorno in cui l'imperatore bizantino mandò un esercito ad appropriarsi della reliquia. Il sudario venne probabilmente preso dai Templari nel 1204, e da qui avrebbe raggiunto Lirey, in Francia. Come la Sindone, così il Graal potrebbe esser stato trovato a Costantinopoli durante le Crociate: ciò spiegherebbe il motivo per cui i romanzi del Graal comparvero improvvisamente sulla scena. Se il Graal raggiunse l'Europa, non è chiaro dove possa esser custodito. Potrebbe esser stato portato in Italia dai Savoia, che entrarono in possesso anche della Sindone. Per questo motivo si pensa possa trovarsi a Torino.
Secondo altri, il Graal sarebbe caduto in mano alla setta dei Catari, e portato nel castello di Montsegur ove, in questo stesso secolo, fu ricercato da un ufficiale nazista, Otto Rahn. Ma le teorie sono molte, tra le quali forse qualcuna nasconde un barlume di verità.
Links:
*Sito internet ufficiale del film: www.kingarthurmovie.com
*Ho condotto le mie ricerche su: Acam - Associazione Culturale Archeologia e Misteri
*Miti di Avalon, in inglese
*Recensioni di film della Guida alla Musica Celtica Myrddin di SuperEva, anche di "Excalibur"
*Un'ora di musiche arturiane, anche Carmina Burana dal film "Excalibur"
*Una recensione illustrata di "Excalibur"
*Taliesin
*Timetable Of Arthurian legends, in inglese
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